La forma promessa
Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto/ in ogni mio intuire. Ed è volgare,/questo non essere completo è volgare,/mai fu cosi volgare come in questa ansia,/questo “non avere Cristo” una faccia/che sia strumento di un lavoro non tutto/perduto nel puro intuire in solitudine.
Pier Paolo Pasolini
Affatto casuale la scelta di avvicinarmi al lavoro pittorico di Claudia Liuzzi con i versi di una poesia, sebbene inattesi siano affiorati alla mia mente quelli lavici di Pier Paolo Pasolini mentre cercavo il più riposto ingresso alle forme, ai colori e ai reperti che la pittrice ha deposto su tele, carte e tavole tramite cui biografa, col gesto artistico, il suo passaggio nell’esistenza.
E ve n’è spiegazione. La poesia è per Claudia Liuzzi fonte di nutrimento spirituale e pratica professionale quale attrice e i segni di essa sono anche depositati in non pochi dei suoi lavori pittorici quale legame tra ineffabilità e materia. La scelta del testo pasoliniano emerge dunque da quel sentimento agonico che vive chi anela al possesso di molteplici ragioni atte a sostanziare il passaggio umano nelle maglie lente dell’esistenza, quelle attraverso cui facilmente passano il senso di impossibilità se non di inutilità della propria opera. Un sentimento questo che accompagna l’uomo dal momento in cui ha potuto iniziare la sua interrogazione. A volte rabbiosamente espresso, altre come invocazione:”e rendi stabile l’opera delle nostre mani, sì, l’opera delle nostre mani, rendila stabile” è la commossa chiusura di un Salmo biblico in cui viene chiesto come dono tra i più grandi la sopravvivenza dell’opera all’esistenza terrena nel tentativo di non lasciare, a chi ci seguirà, la responsabilità di iniziare nella solitudine. Guardare le opere di Claudia Liuzzi è essere al centro del cuore fervido della vita, sentire pulsare l’invisibile. Una scossa alle capacità percettive abitualmente adoperate. Veementi sono i colori, una iperbole di presenza le forme tra magmi, vortici, scomposizioni segniche che affollano le tele in una atmosfera di sospensione tra cielo e terra. Quasi che l’autrice non voglia chiudere la propria ricerca in una dicotomia rigida tra ascesi o incarnazione. Spesso lunghe linee secano le tele come fossero spartizioni e al contempo congiunzioni dello spazio. O sottili cicatrici lasciate dal dolore nell’esistenza umana. Vi è in questa pittura un aspetto di inquietante suggestione proveniente da una clamorosa attestazione della vita oltre ogni cosa, data dalla matericità pittorica, dall’uso di sabbie, fibre di vetro, corde, dall’uso generoso dei colori primari e dalla particolare combinazione ad essi di quelli secondari, degli ori e dei pigmenti, ma nel contempo permane l’impressione che non tutto coincida con una esaltazione della vita stessa. Ed in questo c’è il miglior risultato del lavoro artistico di Claudia Liuzzi ovvero essere riuscita a tenere insieme l’ostinazione per la vita senza paura della morte dentro una espressione mai lirica mai iconoclasta da cui si levano le denunce verso il male, l’aberrazione del sogno umano quando esso diviene incubo di devastazione e morte imposta. Queste urla si levano da: Scala verso il cielo, Torri gemelle, Le donne del silenzio, solo per citare alcune delle opere a cui è affidato un compito direi minimalmente memoriale del tempo ma soprattutto trasformativo, grazie al potere che l’autrice attribuisce all’arte nella sua capacità di assumere forza dall’energia di cui ogni essere umano è portatore e di muoverne altra nel tempo e nello spazio in cui l’opera si trova a manifestarsi, nello struggente desiderio che qualora essa sia portatrice del vero, possa sopravvivere al suo artefice.
Non ci sono forme umane nei suoi quadri, se non fuggevolmente e solo abbozzate, quasi come a volerle panteisticamente comprendere nella materia che di quella impronta umana non deve liberarsi dentro un’alleanza di corpo e spirito a cui questa pittrice molto crede. Sono le parole piuttosto che spesso prendono il posto della sembianza umana, le parole che attraversano tavole e tele a volte leggibili, altre meno ma delle quali fidarsi candidamente se trasportano l’anima dell’uomo. Parole spesso prese in prestito dai poeti o, come nell’intensamente sobrio e malinconico Scala verso il cielo, dai quaderni dei bambini ebrei deportati ad Auschwitz. Promette un interessante sviluppo la serie di ritratti a cui la pittrice sta iniziando a dedicarsi (Tartalù, Delfina). Attraverso studiatissimi equilibri di punti, linee, segni e colore, viene testimoniata l’interiorità più remota e vibrante dei soggetti ritratti senza che mai compaia alcun tratto figurale. L’arte di Claudia Liuzzi, è viscerale ma non istintuale e benchè ella si senta soprattutto medium di un significato più grande di quello che le riesce di verbalizzare, non è affatto azione pittorica nascente dalla casualità o dalla suggestione del momento. È sedimento di lunga sosta nelle profondità dell’essere e ne è conferma il fatto che la sua pittura negli anni diviene sempre più diretta e definita come espressione estetica, sempre più riconoscibile. Nei suoi lavori confluiscono letture, visioni, ascendenze culturali o spirituali quasi che tutto fosse materiale utile a costruire un mondo più accogliente per l’esistenza, un mondo che abbia in sé libertà e mitezza, passione e distacco. L’opera di Claudia Liuzzi, dunque, pare porsi tra noi che guardiamo, proprio come la forma promessa di quel mondo atteso.
Satyagraha
Mariella De Santis